L´occasione mancata per un Paese più governabile
Massimo Giannini
A DESTRA qualcuno sperava in un 25 luglio: conducator
detronizzato, gestione badogliana della crisi e rapida successione nella
Cdl. A sinistra tutti speravano in un 25 aprile: Paese liberato, fine
del regime ed inizio della nuova democrazia. Queste elezioni rischiano
invece di precipitarci in un rovinoso 8 settembre. Un´Italia
drammaticamente spaccata in due. Divisa tra due metà irriducibili e
inconciliabili. Sul piano politico, culturale, sociale. Nell´ignominioso
autodafè dei sondaggi e dei sondaggisti, degli exit poll e delle
proiezioni, ogni sorpresa notturna è ancora possibile. Ma intanto: a
quanto pare, sia alla Camera che al Senato tra Polo e Unione è in corso
un testa a testa fino all´ultimo voto. Il peggiore degli incubi
possibili, alla fine, si sta dunque materializzando: il pareggio. Con
efficacia geometrica, il voto assicura esattamente il risultato promesso
dalla sciagurata riforma elettorale voluta dal centrodestra: la piena,
consapevole e perfetta ingovernabilità del Paese.
Se il Caimano non può vincere (e comunque non ha vinto) che nessun altro
vinca. Questa era stata l´unica logica, e neanche tanto dissimulata, che
aveva ispirato quell´assurdo ritorno al proporzionale con premio di
governabilità su base regionale, votato a maggioranza e in tutta fretta
alla vigilia di Natale. In quella metà del campo avevano lavorato in
tanti, alla costruzione di questa trappola elettorale, insieme
sofisticata e rozza. Non solo il Cavaliere, ma anche l´alacre Casini e
il convalescente Bossi. Nel silenzio ipocrita di Fini, alfiere pentito
del maggioritario. Ora la trappola è scattata. Ed è come l´aculeo
avvelenato di uno scorpione, piantato sulla carne viva del Paese che da
oggi, forse, non potrà avere un nuovo governo, ma non potrà neanche
tenersi quello vecchio.
Metafora perfetta di questa Italia. Che non diventa
prodiana, ma è già post-berlusconiana. Non sarebbe giusto leggere questo
esito paradossale solo con la lente della «tecnica» elettorale. La
«porcata» candidamente ammessa da Calderoli, purtroppo, non spiega tutto.
Dietro al voto, com´è ovvio, c´è anche un segno politico, che va
decifrato.
Prodi non è sconfitto, ma non ha vinto. Comunque finisca, il
Professore ha perso forse la sua più grande occasione. Non ha disarcionato
il Cavaliere. La forza tranquilla del «curato» di Bologna non ha
neutralizzato la campagna impetuosa del Napoleone di Arcore. Forse per la
prima volta nella storia repubblicana, il centrosinistra sfiora la
maggioranza assoluta dei consensi. Ma questo non è sufficiente. Il
risultato dei Ds sembra al di sotto delle attese, quello della Margherita
appare deludente. L´asse riformista dell´alleanza, incardinato intorno
alla lista dell´Ulivo alla Camera, pare attestata sulle stesse posizioni
non proprio entusiasmanti delle europee. L´apporto della Rosa nel Pugno
c´è stato, ma non risulta decisivo. Alla fine, le migliori performance si
possono attribuire alle componenti più antagoniste dell´Unione, a partire
da Rifondazione comunista. La domanda di cambiamento emersa in tanta parte
della società italiana, evidentemente, non è sufficiente a invertire con
nettezza i rapporti di forza tra gli schieramenti. Della Valle e
Bertinotti faticano a stare insieme: la promessa del taglio del cuneo
fiscale, che pure si inquadra in una logica di sostegno alla crescita e al
reddito, non basta a prefigurare una politica. Fassino e Bonino non
convincono: la battaglia di principio in difesa delle tasse come strumento
equo di redistribuzione del reddito, probabilmente, non basta a fugare le
paure ataviche di chi vota con il portafoglio. L´equazione
Luxuria-Mastella non sembra funzionare: la posizione ambigua sui Pacs, le
coppie di fatto e la bioetica, verosimilmente, non è sufficiente a
confortare i laici e neanche a rassicurare i cattolici.
Pesa un
esercizio forse troppo timido della leadership prodiana, che troppo spesso
si è limitata a giustapporre, molto più che a sintetizzare. Pesa il
colpevole ritardo nella realizzazione dell´unico progetto politico che
avrebbe potuto terremotare l´intero sistema, cioè il partito democratico.
Sta di fatto che lo stellone di Prodi, benché illuminato dai 4 milioni e
mezzo di voti ottenuti alle primarie, risulta oggi meno brillante di
quanto non fu nel 1996.
Berlusconi è sconfitto, ma non ha perso. Dopo
cinque anni di governo, si gioca la maggioranza più cospicua che un
governo aveva mai ottenuto dal dopoguerra. Dilapida un capitale di
consensi che nessun capo del governo aveva mai avuto. Per usare la
metafora cara a George Lakoff nel suo «Non pensare all´elefante», non è
stato né un «padre severo» né un «genitore premuroso». Assumendo la sola
sembianza del «rivoluzionario istituzionale», ha generato solo conflitto
senza riforme.
Ha stravolto i linguaggi che raffigurano la politica nel
circuito mediatico, ma non gli ingranaggi che la fanno muovere dentro la
società civile. Cinque anni fa, di questi tempi, si discuteva se dopo il
trionfo del 13 maggio 2001 avrebbe governato per due o per tre
legislature. I più propendevano per le tre. Oggi, con ogni probabilità, la
sua unica legislatura è comunque finita. Ha voluto trasformare anche
queste elezioni su un referendum sulla sua persona.
Ha voluto ancora
una volta che la sua biografia personale coincidesse con il destino
collettivo dell´intera nazione. Questa pretesa, ostinata ordalia non lo ha
premiato. Ma non lo ha neanche del tutto condannato. La furia
motivazionale degli ultimi giorni di campagna elettorale ha mobilitato
quote marginali di elettori apatici. La mattana di Vicenza, l´appello al
cielo sull´Ici e sulla spazzatura, il calcio nei denti ai giudici, lo
sberleffo meta-politico sugli elettori-coglioni, insomma l´intero
armamentario di strumenti ideologico-propagandistici, ogni volta azionati
con l´unico scopo di creare uno stato d´assedio permanente: tutto questo,
alla fine, a qualcosa sembra servito. Ha evitato il collasso definitivo di
Forza Italia, che crolla di 9 punti rispetto al 2001 ma resta pur sempre
il primo partito del Paese, anche se perennemente sospettato di essere
solo un comitato elettorale di Berlusconi. Come che sia, questo impasto di
parossistico culto della personalità, di populismo d´accatto e di politica
come variante del marketing, resiste e continua a far vibrare le corde di
almeno mezza Italia. E anche l´esito scontato del conflitto di interessi,
incarnato pervicacemente dal premier. In politica la televisione non è
tutto, ma qualcosa vorrà pur dire se nel 1987, in media, gli italiani
guardavano la tv 178 minuti al giorno, e nel 2002 questa quota è
raddoppiata al 235 minuti al giorno, con una prevalenza assoluta tra gli
anziani e le casalinghe. Il sogno azzurro è già da tempo diventato un
incubo. Ma evidentemente ci sono molti elettori che non si vogliono
svegliare. Nella coalizione di centrodestra, infatti, con An che difende
le posizioni e la Lega che scivola un po´ per effetto della malattia di
Bossi, il solo partito che fa passi avanti sembra l´Udc. Anche per questo
si può dire che il Cavaliere è sconfitto, ma non ha perso del tutto. Se
davvero nel 1994 è sceso in politica per salvare il suo impero mediatico e
finanziario e per mettersi al sicuro dai processi penali a suo carico,
allora si può dire che la sua avventura si conclude con un successo
straordinario. Non solo: se vincesse anche di un solo voto a Montecitorio
e a Palazzo Madama, avrebbe i numeri per farsi eleggere addirittura alla
presidenza della Repubblica. Un paradosso nel paradosso.
Che succede a
questo punto, se davvero sarà pareggio, è difficile dire. Affiorano già,
mascherate da un tardivo «senso di responsabilità istituzionale» di molti,
le peggiori tentazioni, per lo più centriste e inciuciste. Dal governo
tecnico alla Grande Coalizione. Se non ci sarà una maggioranza pur che
sia, che si assuma il rischio di tirare a campare con un paio di seggi di
vantaggio, l´eventualità più probabile è che si torni addirittura a votare
entro un paio di mesi. Si fa fatica a capire in quale spurgo di miasmi, e
con quali regole elettorali. Questo magari farà piacere a chi si nutre
della «cafonaggine carismatica» del Caimano, si crogiola nel mito
dannunziano della «bella morte», si bea nei frizzi e i lazzi della
«politica divertente». Ma per questa Italia spaccata, e sempre sospesa tra
l´orrore e il folclore, è un vero disastro.
Speravamo, e in cuor nostro
nella notte ancora speriamo, in un altro film.